“Una strana nebbia”
Era la sera del 10 aprile 1991 quando, nel porto di Livorno, il traghetto Moby Prince, diretto ad Olbia, si schiantò nella rada labronica contro la fiancata della petroliera Agip Abruzzo, per poi incendiarsi. Morirono 140 delle 141 persone a bordo, tra equipaggio e passeggeri, unico superstite il giovane mozzo napoletano Alessio Bertrand. Una tragedia che, in termini di perdita di vite umane, è la più grave che abbia mai colpito la Marina mercantile italiana, dal secondo dopoguerra ad oggi.
Così come accade per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009 anche in questo caso la battaglia per ottenere Verità e Giustizia è dura, dolorosa, faticosa ed alimentata, soprattutto, dal coraggio, dalla tenacia e dalla forza dei familiari delle tante, troppe persone innocenti che hanno perso la vita.
A che punto siamo? Come andarono le cose?
Provate a pensarci e datevi le risposte. Sono certo che la maggioranza di voi sarà orientato a delineare uno scenario in cui si parla di nebbia, delle responsabilità del Comandante Ugo Chessa o di entrambi i fattori.
E invece….
Ecco un interessante articolo, apparso in questi giorni sul quotidiano La Stampa, relativo all’uscita di un libro che apre, recupera, concretizza scenari a dir poco inquietanti e clamorosi.
Moby Prince, 30 anni: “Tragedia voluta dalla mafia”
L’ipotesi nel libro “Una strana nebbia” di Federico Zatti, uscito il 6 aprile per Mondadori. “La petroliera Agip Abruzzo colpita con il traghetto dirottato per punire lo Stato”. Sullo sfondo la guerra Montedison-Eni per l’Enimont e il business del petrolio. I collegamenti con l’esplosione della Haven e la strage di Capaci.
Nessuna negligenza, nessun errore: il Moby Prince sarebbe stato dirottato. L’Ustica del mare, di cui ricorre il trentennale, sarebbe stato un atto deliberato, legato con un macabro filo all’esplosione della petroliera Haven e alla strage di Capaci. Dietro quei 140 morti del traghetto, così come per Giovanni Falcone, ci sarebbe la guerra intentata dalla mafia allo Stato.
Il lavoro del giornalista e autore Rai si aggiunge a una già ricca narrativa sulla tragedia, ma parte da un punto diverso: non è il traghetto, ma la petroliera la vera protagonista di questa vicenda.
È un ribaltamento dei mondi, che anzitutto mette in discussione le conclusioni delle precedenti inchieste. Sintetizziamo. È difficile pensare che un comandante esperto come quello della Moby, Ugo Chessa, non si sia accorto della nave cisterna e ci sia andato a finire contro. Anche perché non c’era alcuna nebbia, quella notte, come invece si è sostenuto in principio (c’è un video di Francesco D’Alesio, della famiglia proprietaria delle bettoline del porto, che lo conferma). E non è stata certo la posizione della petroliera alla fonda sul confine di una zona di divieto di ancoraggio, ad averlo potuto trarre in inganno. E, inoltre, è difficile pensare che gli uomini della Capitaneria non siano stati in grado di coordinare i soccorsi, quelli che, se giunti sul traghetto in tempi brevi, forse avrebbero salvato le vite di tanti passeggeri, asserragliati nel Salone De Luxe. Passeggeri che, per il perito Angelo Fiori, sarebbero sopravvissuti per ore dopo la collisione.
E allora, cosa? Zatti ipotizza che il Moby Prince sia stato sequestrato e dirottato contro la petroliera. Alla luce di ciò, i passeggeri sarebbero stati radunati nel salone, il traghetto sarebbe stato spinto contro la nave cisterna con rotta quasi perpendicolare, i dirottatori si sarebbero calati lungo la fiancata e sarebbero stati recuperati da una barca (c’è una testimonianza, riferita dal radioamatore Gian Marco Cignetti). Poi, dopo l’urto, Chessa avrebbe ordinato la marcia indietro e con le eliche di prua in azione ci sarebbe stata l’esplosione. Nel locale che ospitava i motori elettrici di queste ultime il perito Alessandro Massari ha trovato molecole riconducibili al Semtex, l’esplosivo militare.
Sarebbe stata una deflagrazione voluta, per incendiare il carico della cisterna n. 7 dell’Agip Abruzzo, dove è avvenuto l’impatto e dove forse non c’era greggio, ma nafta, ben più infiammabile. Se così fosse, allora si spiegherebbe il silenzio radio successivo al “mayday” del Moby Prince (sono state trovate le antenne radio spezzate) e il comportamento della Capitaneria, che in un caso di dirottamento non poteva gestire i soccorsi ma doveva lasciare il campo ad autorità superiori.
Ci sono, nel libro, ovviamente molti altri passaggi, come una possibile tappa segreta della nave cisterna a Milazzo, ma il punto nodale è il movente. E allora, bisogna ripartire da lontano. Dalla polvere di marmo, utilizzata anche per il calcestruzzo e dai presunti collegamenti tra Carrara e Palermo, che l’autore ipotizza via galassia Ferruzzi; un link che porterebbe al business degli appalti e poi del petrolio. Sull’oro nero, in particolare della Sicilia, la mafia avrebbe messo gli occhi parteggiando per Montedison nella guerra di potere contro l’Eni per il controllo di Enimont. E quando lo Stato mette alle corde Raul Gardini, che sarà infine estromesso dal controllo del colosso della petrolchimica, la reazione di Cosa Nostra (all’insaputa del “Corsaro” di Ravenna) non si sarebbe fatta attendere. 10 Aprile ’91: Moby Prince, 140 morti (un piano, scrive l’autore, forse sfuggito di mano agli ideatori a causa dei mancati soccorsi); pochi giorni dopo, l’affondamento della petroliera Haven davanti alle coste liguri, 5 morti. E, poi, 23 maggio ’92, Capaci, 5 morti (la pista degli appalti, sulla quale indagherà anche Paolo Borsellino).
A leggere il libro, tutto pare plausibile. Ed è questo, forse, l’aspetto più sconvolgente. Zatti chiama in causa lo speronamento dell’Andrea Doria da parte della svedese Stockholm del 1956 al largo delle coste Usa. Anche allora, come nel caso Moby Prince-Agip Abruzzo, ci fu un accordo extragiudiziale tra compagnie per tacitare le parti – normale, non deve scandalizzare. Lo deve, invece, che solo dopo 50 anni da quella collisione spuntarono le carte dell’inchiesta governativa e si ebbe almeno una verità relativa. Una verità che non c’è ancora, invece, per l’Ustica del mare. Ma sono trascorsi “solo” 30 anni.